domenica, settembre 22, 2013

fase 03: Sbagliare nel modo giusto.


E' arrivato il momento di disegnare. Si tratta di  una storia intera di novantaquattro pagine. Sono davvero parecchie.
La cosa mi terrorizza, ma come sempre comincio a farlo, per illudermi che sarò anche questa volta in grado di affrontare questa paura, ormai così familiare.
In realtà la fase più significativa della preparazione delle tavole, è quella degli schizzi che fai in cinque minuti, dove di solito si trova già tutto il senso di quello che poi verrà stampato alla fine, sul libro. Con l'unica differenza che alla fine sarà più comprensibile e gradevole agli occhi del lettore (cosa che forse non sarà questa lunga riflessione sul "disegno" che sto per fare...).

Gli schizzi in questa fase sono di solito pieni di segni, che nella fase successiva andrebbero scartati: nel "clean-up" della pagina, sia esso costituito dall'inchiostrazione o dal passaggio alla matita pulita o altro. Nel passaggio alla fase della riproducibilità, per intenderci.
Per quanto mi riguarda, tutti quei segni sbagliati, sono sempre stati i più interessanti, per me. Non lo so il motivo, ma forse perchè non li riconosco in quanto miei.
Credo che il mio modo di lavorare sia divenuto almeno per me" riconoscibile", quando ho confessato a me stesso che gran parte di ciò che mi riusciva meglio, partiva da singoli segni o da interi disegni per così dire"sbagliati".
Messa così, sembra complicata, me ne rendo conto.


Se c'è una cosa che nessuno ti insegna nelle scuole d'arte italiane, è che a volte è molto più utile studiare i propri errori che tenere conto dei propri successi. Tutta la parte delle tua vita in cui ti devi solo occupare di immagazzinare informazioni, e sperare che poi fermentino per bene per restituirti un idea di senso, un diagramma compiuto del modo in cui devi utilizzarle è forse la più interessante della tua esistenza di essere umano, intenzionato poi a consacrarsi "creativo". E' in quella fase che hai la possibilità di sapere chi sei.
Normalmente ti si dice di seguire delle regole. Tutti sono in grado di uniformarsi a delle regole utili per ottenere uno scopo, per essere riconoscibili dal contesto in cui si inseriscono.  Un tot persone possono essere istruite a comportarsi nello stesso modo, nel caso di un disegnatore, a disegnare nello stesso modo.
Ma quello che porta a farsi distinguere dalla strada precostituita è l'errore, la caduta; e più sarà rovinosa questa caduta, più sarà facile allontanarsi dal sentiero già battuto.
L'errore, è quello che ti consente di essere inconfondibile, perché ognuno di noi, di solito sbaglia in modo diverso dagli altri.

In ogni caso, tentiamo almeno stavolta di non sfociare nella filosofia spicciola.
Sei in una delle aule della tua scuola d'arte italiana, durante i tuoi inizi.
Ti dicono di copiare per l'ennesima volta, una delle riproduzioni in gesso dei "Prigioni" di Michelangelo.
Di solito c'è chi passa tutto il proprio tempo in questo sacro edificio a tentare di capire perché il tratteggio incrociato ha un effetto diverso dallo sfumato a toni sovrapposti.
C'è chi si chiede invece se Michelangelo, fosse veramente omosessuale.
C'è chi auspica che il supporto cartaceo sia quello che farà la differenza.
C'è chi è già ubriaco alle nove e mezza di mattina perché al bar ha dovuto corrompere un professore a suon di bianco frizzante per farsi passare un dispensa essenziale, ma introvabile.
C'è chi si interroga sul fatto che il disegno in bianco e nero possa essere sufficiente anche senza il colore o viceversa.
E' molto probabile, che nessuno tra loro sbaglierà nel modo giusto.
Perchè?

Perchè il contesto in cui si trovano ad operare, non ha la struttura simbolica adeguata a legittimare questo errore. Il sistema che sorregge un luogo dove ipoteticamente è necessario insegnare a diventare degli artisti o (umilmente) a diventare  "operatori" dell'arte, non si può autolegittimare per principio, e se lo facesse contraddirebbe se' stesso.
Probabilmente nel futuro cambierà, arriverà un qualcosa, un progetto innovativo, una visione originale portata avanti da un singolo o da un gruppo di illuminati. Una consapevolezza tale per cui tutto il sistema di nozioni intangibili, sfuggenti, anacronistiche e allo stesso tempo avveniristiche, su cui si sorregge il sistema dell'insegnamento, nelle scuole d'arte, verrano riorganizzate, in modo da fornire a chi vi accede un profilo di utilizzo comprensibile.
Per il momento, non si offre affatto "formazione".
Tutto ciò che viene offerto, salvo casi rari, è più "un'esperienza": una sorta di passeggiata all'interno del sistema, con la sensazione costante, che di tutto ciò che ti viene mostrato, si faccia il possibile per nascondertene il senso.


Io non voglio recriminare, ma ho passato un anno intero a seguire un corso di Storia dell'arte contemporanea in cui il docente (un luminare a detta di molti) ha trascorso tutte le sue venticinque lezioni circa a dire che " ... se esiste qualcosa che si può dire dell'arte, è la sua impossibilità di essere detta".
Senza una foto, senza una dispensa: nulla. Venticinque ore di lezione, così.
Alcuni, si iscrissero appositamente a questo corso dalle altre sezioni, da scultura, da decorazione, avendo sentito dire che durante le lezioni degli anni precedenti, non era raro che il pubblico sfociasse in applausi clamorosi e commossi. Io quell'anno, non ricordo nè applausi, nè clamore.
Ma senza entrare nell'aneddotica, basti sapere che questo genere di situazioni costituiva la regola, più che l'eccezione.
Tutto dovuto a cosa? Ad un fraintendimento di fondo, secondo il quale, a tutti dovrebbe essere permesso l'accesso a questi contenuti, ma nel momento in cui ci sei, i contenuti stessi ti vengono presentati come impossibili da raggiungere attraverso quel genere di tipologia apprendimento. Non sto scherzando. Ti dicono veramente questo.
E accade soprattutto quando ti appresti a creare qualcosa di tuo, cioè hai già superato la fase di apprendimento tecnico, nell'ipotesi che tu abbia avuta la fortuna di farla come si deve.
Ti infilano in un labirinto, dove essi stessi,  lavorano incessantemente sollevando nuove, altissime pareti, scavando passaggi segreti, immaginando nuove coordinate ed architetture dicendoti: "sicuramente non avrai modo di sapere dov'è l'uscita, perchè nemmeno noi sappiamo dov'è. Però se userai bene il tuo talento, nessuno ti impedirà di cercarla. Forse per raggiungerla devi tirar su un bel tramezzo di forati laggiù, oppure aiutare il tuo collega a demolire quella scala a chiocciola..."
E ai problemi, per così dire "contenutistici", si aggiungono quelli strutturali, dovuti al modo di gestire scuola e cultura da parte di chi sta al potere nel nostro Paese, che in nessun caso sono da sottovalutare.



Io non ho niente contro le scuole di fumetto, anche e soprattutto perchè non ne so praticamente nulla.
Io faccio una riflessione sulle scuole d'arte, perchè c'ho passato dieci anni della mia vita, inside.

Il novanta per cento delle persone che frequentano questi istituti (me compreso) quando escono con il diploma in mano fresco di stampa dalla segreteria dell'edificio, hanno tutti la stessa espressione spaesata, del tipo: "...e 'sti gran cazzi? Che ci faccio ora?".
Questo perché la maggioranza delle volte durante i quattro/cinque anni in cui si sta lì, si è lasciati soli, pretendendo che lo spirito dell'arte, si impossessi degli allievi allo stesso modo in cui può farlo un virus spontaneo, svaporato dai gessi e dai cavalletti, una volta collocati all'interno di queste strutture.
Gatto, un mio grande amico, forse l'unico che aveva capito come funzionavano le cose, appena dopo la discussione del diploma, salì sul ponte che sta davanti all'accademia e buttò la tesi, dritta nel canale.


Io penso che la vita sia breve, e che una delle cose più importanti per operare con intelligenza o buon senso durante il nostro percorso su questa terra, sia sapere chi siamo.
In questi luoghi, dal mio punto di vista, è veramente difficile scoprirlo.

Lo dico: secondo me per insegnare un mestiere in questo ambito, è necessario partire dall'esempio degli Jedi di Star Wars, ovvero che un insegnante, può avere solo un allievo alla volta: un Padawan (anche se questa parola mi ha fatto sempre pensare al "Padovano", lo "spritz forte" che fanno i bar per gli universitari Patavini).
Per tornare ad un concetto reazionario, secondo me è possibile apprendere un qualcosa in questo ambito, solamente andando a "Bottega".
 E' l'unico modo per crescere, per non avere sempre quella sgradevole sensazione di: " qui da noi, puoi imparare tutto, ma occhio che puoi anche non imparare nulla. Fai tu....".

Io non ho mai avuto questa fortuna, ma sono riuscito a crearmi dei surrogati di questa esperienza.
Io ho imparato qualcosa laddove ho avuto la possibilità di avere un contatto diretto e reale con chi insegnava. (Evitiamo le battute o i racconti, su chi di contatti coi docenti ne ha avuti, ma di genere orale o pubico; cosa non del tutto rara nemmeno questa. Non ci interessa, io volevo parlare di un altra cosa).

Qui forse (finalmente) si ritorna al motivo per il quale ho cominciato a scrivere questo post, ovvero l'errore.
Dicevo, il contatto con il docente è necessario  perchè è in quel contesto che si è legittimati a sbagliare nel modo giusto. Quando si vuole imparare l'arte, se proprio lo si vuole fare, è necessaria una certa dose di empatia con chi ti insegna. Un qualcosa che si crea quando, la riuscita di quello che fai dipende anche dalla riuscita del rapporto. O dal totale disfacimento del rapporto, ma di rapporto si deve trattare.
Un rapporto di tipo esclusivo non è da intendersi come una classe, uno studio vuoto, dove ci sono solo l'insegnante con il suo allievo. Non dev'essere inteso come un qualcosa di elitario in senso stretto o di "antidemocratico".
E' una cosa che può avvenire normalmente anche in una classe dove vi siano altre persone. Quello che conta è il link, che permette al lavoro di entrambi di avere legittimità piena.


Io ho avuto dei grossi scontri coi docenti con cui, ancora senza saperlo, avevo questo tipo di rapporto esclusivo. Non ho mai amato più di tanto le nozioni per così dire "dogmatiche" del disegno (in realtà nessuno le ama, sono noiose). Tutta quella parte in cui devi solo ripercorrere il lavoro di altri e ripeterlo, di cui sopra.
Ho avuto la chance di conoscere qualcuno a cui questo mio svogliato "disinteresse", interessava.
Quel qualcuno, mi ha portato a farmi disgustare talmente tanto queste nozioni, che senza rendermene conto, provocò in me il desiderio di sbagliare apposta, pur di farla finita con quella agonia.
Questa è una cosa fondante per me, e l'ho capita solo in questo modo. Ma ci sono arrivato solo con un enorme quantità di lavoro (che rifiutavo e mi disgustava, ma che mi costringevo a fare) e con il sostegno latente di qualcuno che mi aveva preso a cuore.
Eravamo sempre lì, nella struttura, con quel sistema simbolico contraddittorio e ambiguo. Ma qualcosa dell'esclusività del lavoro che si portava avanti, aveva fatto sì che si creasse un isola, in cui tutto il vociare di vuoti paradigmi sussurrati, venisse meno, sostituito da una reale e conflittuale operatività.
Io stimavo il suo lavoro, cercavo di imitarlo,  e nella fatica e nella frustrazione rimanevo sempre affascinato da quel suo alone di magica irraggiungibilità (altra condizione fondamentale).


Nel momento per così dire finale del nostro percorso insieme, questa persona mi disse che quello che facevo non valeva nulla, che ero solo uno dei tanti che aveva visto negli anni di lavoro e da cui aveva provato di estrarre qualcosa di buono;  mi disse anche che lo avevo deluso, ma se ne sarebbe fatto una ragione. Questo perchè, ad un certo punto avevo mollato, non riuscendo più a capire cosa farmene di tutta quella frustrazione accumulata.
Andai a casa e sul treno mi dissi che probabilmente io ero questo: uno dei tanti imbrattatori di fogli che si credeva chissà chi. Che non era la prima volta che una cosa del genere mi veniva detta. Che probabilmente non cambiava nulla. Che l'idea che mi ero fatto di come si dovesse essere per diventare un professionista, o comunque uno che consacrava la sua vita a quel genere di cose, non corrispondeva alla realtà: che mi ero fatto un film.
Al di là di tutto , ero affranto all'idea di aver deluso una persona che si era fidata di me. Soprattutto perchè era una cosa rara, e io l'avevo dissipata. Questo era il fallimento più grande.
Quando scesi dal treno, mi accorsi che mentre ero preso da queste considerazioni escatologiche, avevo quasi riempito un quaderno intero, di disegni. Disegni strani, che non avevo mai fatto.
Non andai più a lezione nelle settimane successive e quel quaderno stava sempre nella borsa, senza che avessi la voglia di riaprirlo, perché sapevo che vedere quegli schizzi mi avrebbe fatto pensare immediatamente alla tragedia umana in cui mi ero trasformato.
La fine del corso e con esso l'obbligo di consegnare qualcosa di concreto per l'esame finale si avvicinava, ed io stavo lì, a rigirarmi in tutto quell'amore per il disegno, andato sprecato.
Però lo feci, li riguardai.
Erano sbagliati.
C'era un atteggiamento pretenzioso, velleitario in quei disegni.
Cercavo di strutturare delle figure umane, mescolando a caso delle linee di costruzione, e utilizzando gli errori di calcolo per simulare una struttura. Queste figure si muovevano senza scopo, ammassate l'una nell'altra in ambienti neutrali, in spazi costruiti anche in quel caso con delle tecniche che ricordavo di aver visto da qualche parte, ma di cui non conoscevo il senso. Anche in questo caso, imitazioni di destrutturazioni spaziali viste chissà dove.


Era tutto sbagliato. Ne feci altri per trovare il modo di vergognarmene di meno. Alla fine ne feci credo un centinaio, di cui non ero mai soddisfatto. Ma dopo quei cento disegni, mi resi conto che non provavo più fatica o frustrazione nel momento in cui dovessi disegnare qualcosa. Quelle sensazioni erano scomparse. Riuscivo a disegnare senza provare il senso di fatica che avevo sempre provato, almeno da quando ero obbligato a farlo, per studio.
Mostrai questa roba al docente, che senza dire nulla, a parte "mi chiedevo dove fossi finito", prese quel malloppo e lo mise paro-paro nella cartella della mostra scolastica di fine anno. Lo stesso malloppo che poi sarebbe rimasto, assieme ad altri degli anni precedenti, negli archivi del corso , come esempio per gli allievi degli anni successivi. Era contento, ma non lo dava a vedere. E' andata così, positiva o negativa che fosse questa cosa.
Paradossalmente, se si volesse essere pedanti, si potrebbe dire che ho cercato anch'io una "regola", per quanto possa essere convinto di partire dalla negazione delle regole.
Che l'errore in cui sono caduto, nella relazione con un mentore, o nella fortuna di trovare una soluzione, un sentiero, laddove ragionevolmente, ci si sarebbe solo dovuti smarrire, sia stato pianificato e si è potuto verificare, solo perchè stavo in quel posto, in quella scuola, tanto bestemmiata.
Che non avevo un rapporto esclusivo con quel docente, o con gli altri maestri con cui ho avuto esperienze simili, ma che semplicemente quella persona era uno che faceva bene il suo lavoro e mi ha illuso di avermi preso sotto la sua ala, per ottenere il suo risultato.
Quello di cui sono certo è che il suo era il modo giusto per portare un cinno senza arte ne' parte a prendere consapevolezza dei suoi strumenti. Senza giri di parole sull'indicibilità dell'arte, o sull'impossibilità di conoscere quello che si fa. Sull'impossibilità di conoscere se' stessi.
Quelle sono solo cazzate.

In ogni caso, ripercorrere tutto questo mi aiuta a cominciare, ad avere meno paura, lo faccio ogni volta.
Non ho più smesso di disegnare in questo modo da allora, o almeno di "strutturare" il mio modo di disegnare così all'inizio di un lavoro, per poi arrivare a quello che consegno all'editore.
Parto dall'assunto, che se sbaglio, probabilmente sto facendo bene.






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